Tribunale Grosseto, 17/01/2020, n.58
Fatto
MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO
Con atto di citazione ritualmente notificato, M.L. conveniva in giudizio R.L. per sentirlo condannare, ai sensi dell’art. 1489 c.c., al risarcimento dei danni patrimoniali (€ 101.939,48) e non patrimoniali (€ 50.000,00) patiti a seguito della compravendita immobiliare stipulata inter partes il 27.6.1997. Il tutto col favore delle spese di lite.
A sostegno della domanda, l’attore evidenziava che l’immobile acquistato dalla controparte “conforme alle vigenti normative edilizie”, in realtà presentasse delle gravi irregolarità emerse soltanto nell’anno 2010, quando decise di rivendere il bene a terzi.
In particolare il fondo de quo venne promesso in vendita con contratto preliminare del 2.6.2010, ma nelle more della stipula del definitivo il tecnico incaricato dai promissari acquirenti riscontrava l’esistenza di irregolarità edilizie – solo parzialmente sanabili – realizzate nel periodo in cui l’odierno convenuto era proprietario del bene, e che poi venivano confermate dal tecnico di fiducia dell’attore [a) modifica della copertura del locale destinato a uso cucina sito nel sottotetto, da cui l’abusivo ampliamento volumetrico dell’unità immobiliare oltre al ricavo di un vano privo delle altezze minime; b) modifica della finestra presente nella cucina, da cui l’illegittima alterazione dell’aspetto esteriore del fabbricato; c) realizzazione di scalini sulla terrazza e di altre opere interne di minore rilevanza].
Per evitare di subire lo scioglimento del compromesso, con obbligo di restituzione del doppio della caparra ex art. 1385 c.c., il L. dové provvedere a proprie spese alle pratiche necessarie per il ripristino dello stato legittimo dell’immobile (demolendo le opere abusive), accettando poi di cederlo alla minor somma di € 247.000,00, in ragione della ridotta fruibilità del bene a ripristino avvenuto.
Il danno risarcibile veniva così quantificato dall’attore: € 80.000,00 per la minor somma di vendita dell’immobile a terzi tra il preliminare (€ 327.000,00) e il definivo (€ 247.000,00); € 1.123,00, per spese finalizzate al ripristino del bene; € 20.816,48 per le spese di istruttoria, notarili e interessi di ammortamento del mutuo che l’attore fu costretto ad accendere per raggiungere l’importo necessario per comprare un altro immobile; € 50.000,00, quale ristoro del forte stato di sofferenza e turbamento causato dall’intera vicenda in esame.
Si costituiva il sig. R.L., chiedendo il rigetto integrale della domanda avversa.
A propria difesa, il convenuto anzitutto negava di aver realizzato le opere asseritamente abusive, e rilevava, altresì, come la controparte avesse ben visionato l’immobile prima dell’acquisto, accettandolo “nello stato di fatto e di diritto” in cui si trovava. Lamentava l’anomala condotta dell’attore, il quale abitò comodamente nel fondo per tredici anni, non avendo peraltro mai informato l’alienante delle criticità riscontrate nel 2010, se non mediante l’istanza risarcitoria promossa a conclusione degli avvenimenti, così impedendogli di attivarsi per una possibile sanatoria ovvero per accertare e ridurre l’entità del danno, il cui esorbitante ammontare non era quindi opponibile al convenuto, quantomeno in applicazione della norma di cui all’art. 1227 c.c..
Il R.L. eccepiva altresì la prescrizione dell’azione di garanzia, replicando peraltro nel merito come l’attore, pur avendo agito ai sensi dell’art. 1489 c.c., non avesse domandato la riduzione del corrispettivo della compravendita del giugno 1997, né del resto aveva provato che lo stesso fosse superiore al reale valore del bene, sicché eventualmente, la domanda indennitaria quanti minoris, poteva esercitarsi nei soli limiti di equa proporzionalità al corrispettivo pagato.
Contestava, infine, la quantificazione dei danni risarcibili indicati dalla controparte, negandone per alcuni l’eziologia con l’asserito inadempimento contrattuale, con particolare riferimento al vulnus di natura non patrimoniale e alle spese affrontate per accendere il mutuo.
Depositate le memorie istruttorie ex art. 183, co. 6 c.p.c., la causa veniva istruita mediante l’assunzione delle prove orali ammesse e con l’espletamento di C.T.U., per essere trattenuta definitivamente in decisione dal mutato Giudicante all’udienza dell’1.10.2019, con assegnazione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.
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La domanda attorea è fondata nei limiti che seguono.
Osserva il Tribunale che la materia del contendere origina dalla vendita dell’unità immobiliare sita in Orbetello (GR), Corso I., realizzata con contratto perfezionato tra le parti il 27.6.1997 (all. 1 alla citazione) e pervenuta in proprietà esclusiva del L. con atto di divisione del 7.5.2003 (all. 2).
L’abitazione si sviluppa su due livelli: un piano secondo, composto da ingresso/soggiorno/pranzo, e un soprastante piano sottotetto, che ospita una camera, cucina, bagno e terrazza.
Lamenta l’attore che dopo diversi anni dal predetto acquisto, in occasione della rivendita del bene a terzi nell’anno 2010, emerse come nello stesso fossero stati eseguiti dal proprio dante causa (odierno convenuto) dei lavori di ristrutturazione che non furono oggetto della concessione edilizia in sanatoria n. 439/1993 – menzionata nel contratto del 1997 – e che resero l’immobile parzialmente abusivo, con necessità di ripristino al fine di garantirne la piena commerciabilità.
Le irregolarità edilizie inerivano principalmente l’andamento della copertura della cucina, in parte resa piana invece che con falda obliqua (a capanna con andamento continuo) con l’utilizzazione della parte superiore di questa porzione piana quale terrazzino praticabile dotato di opportuno parapetto (cfr. all.ti A ed E del doc. 5 di parte attrice).
Veniva poi lamentata la presenza di un camino in muratura al piano secondo, di uno scalino nella terrazza, di ulteriori due scalini nel servizio igienico posto al piano sottotetto.
La scoperta di tali anomalie incise notevolmente sul prezzo di rivendita del bene nell’anno 2010, in quanto il L. prima stipulò un preliminare di vendita al prezzo di € 327.000,00 (cfr. all. 3) e successivamente, dopo la scoperta di tali vizi, dové provvedere a proprie spese per ripristinare l’immobile e rinegoziarne il prezzo all’inferiore importo di € 247.000,00 (cfr. all.ti 7 e 10).
Va detto che la consulenza svolta in corso di giudizio ha sostanzialmente corroborato la tesi attorea.
Il CTU ha verificato che al momento del sopralluogo la copertura della terrazza era stata ripristinata, quindi riportata allo stato originario rispondente alla concessione in sanatoria n. 439/1993, mentre gli altri elementi contestati risultavano ancora presenti.
Ha accertato, altresì, l’esistenza di irregolarità urbanistiche, oggi legittimate dall’intervento attoreo di ripristino per ciò che concerne la copertura del locale cucina, mentre ha escluso la tutela di quelle riferite agli scalini interni al servizio igienico ed lo scalino sul terrazzo, quest’ultimo perché, pur non citato negli elaborati e nella relazione di accompagnamento alla pratica di “condono”, risultava però dalla documentazione fotografica ugualmente allegata.
Per ciò che concerne il camino, infine, l’unica struttura che può essere oggetto ad “accertamento di conformità” è la canna fumaria che si eleva sopra l’andamento della copertura, ivi considerando il cappellotto finale. La rimessa in pristino non è soggetta a sanzione ed è avvenuta seguendo la procedura della “Denuncia di inizio di Attività” in ossequio alla Legge n°1/05 della Regione Toscana, artt. 79 – 84, che, opportunamente inoltrata, ha assunto presso il Comune di Orbetello il numero di pratica 547/2010. Rispondendo al quesito che gli era stato posto dall’istruttore, inoltre, il consulente ha quantificato le spese che l’attore ha dovuto sostenere per il ripristino dei luoghi, nell’importo omnia di € 10.000,00, comprensivo di lavori, compensi ai professionisti incaricati e sanzione amministrativa per la realizzazione del comignolo esterno alla copertura (cfr. pagg. 7 e 8 della perizia).
Ha evidenziato che, inoltre, il ripristino dell’immobile ha inciso nella misura del 20% sul valore dello stesso. Pertanto, mentre si poteva considerare equa la cifra di € 327.000,00 indicata all’epoca del compromesso fra il L. e i terzi (non considerando l’esistenza degli abusi edilizi poi riscontrati), non poteva ignorarsi come gli interventi necessari eseguiti nel 2010 avessero “mortificato” l’unità abitativa per una minore altezza che limita gran parte della cucina (da mt. 2,14 in piano scende a mt. 1,80 di media, con un minimo in gronda pari a mt. 1,50), oltre alla mancata presenza del terrazzino che, pur se marginalmente influente nell’ottica generale, sparendo totalmente riduce comunque la visione panoramica circostante. Il tutto per un ulteriore decremento di € 63.000,00 (cfr. pagg. 8 e 9 della perizia).
Ciò posto, esaminando la fattispecie in punto di diritto, si rileva che l’attore ha qualificato la propria azione ai sensi dell’art. 1489 c.c..
Tale soluzione appare corretta alla luce dell’orientamento espresso dalla Suprema Corte secondo la quale “in ipotesi di compravendita di costruzione realizzata in difformità della licenza edilizia (…), non è ravvisabile un vizio della cosa, non vertendosi in tema di anomalie strutturali del bene, ma trova applicazione l’art. 1489 cod. civ., in materia di oneri e diritti altrui gravanti sulla cosa medesima, sempre che detta difformità non sia stata dichiarata nel contratto o comunque non sia conosciuta dal compratore al tempo dell’acquisto ed altresì persista il potere repressivo della Pubblica amministrazione (adozione di sanzione pecuniaria o di ordine di demolizione), tanto da determinare deprezzamento o minore commerciabilità dell’immobile” (cfr. ex multis Cass. n. 4786/07).
L’attore non ha preteso la riduzione del prezzo dell’immobile acquistato nel 1997 dal convenuto, ma ha chiesto direttamente il risarcimento dei danni legati alla condotta di controparte e patiti nel 2010 in occasione della rivendita del fondo a terzi.
Ebbene, va considerato che nell’ipotesi di vendita di cosa gravata da diritti o da oneri ai sensi dell’art. 1489 c.c.., l’acquirente ha diritto, oltre alla risoluzione del contratto o alla riduzione del prezzo, secondo quanto stabilito dall’art. 1480 c.c., anche al risarcimento del danno, fondato sulle norme generali degli artt. 1218 e 1223 c.c., in base al richiamo di quest’ultima disposizione da parte dell’art. 1479 c.c., a sua volta richiamato dall’art. 1480 c.c., cui rinvia ancora il citato art. 1489 (cfr. Cass. n. 4786/07).
Nel caso di specie è irrilevante che l’attore abbia preferito esercitare l’azione risarcitoria piuttosto che l’actio quanti minoris, giacché la direttiva espressa dal legislatore con l’art. 1223 c.c. – sopra richiamato dal combinato disposto – è nel senso che il risarcimento del danno deve essere integrale e deve, cioè, corrispondere alla differenza tra il valore effettivo del patrimonio in un determinato momento e il valore che si sarebbe potuto realizzare se l’obbligazione fosse stata esattamente adempiuta, comprendendo così una somma corrispondente alla diminuzione subita dal patrimonio del creditore (danno emergente) e una somma corrispondente al mancato aumento del patrimonio (lucro cessante).
Senza trascurare che l’azione di risarcimento danni può estendersi a tutti i danni subiti dall’acquirente, anche quelli corrispondenti alle spese sborsate per il ripristino del bene nello stato legittimo.
Alla luce delle considerazioni di cui sopra deve essere ritenuta corretta, quindi, la domanda risarcitoria proposta da parte attrice nei confronti del convenuto – nei limiti di cui infra – risultando integrati i presupposti di cui all’art. 1489 c.c. atteso che è pacifico che le difformità rilevate non furono indicate nel contratto né è emersa prova del fatto che il compratore ne fosse in alcun modo a conoscenza.
Il convenuto, difatti, ha anzitutto eccepito di non aver eseguito personalmente le opere (facendo invece presumere che fossero già presenti nel 1997) e che la controparte, in ogni caso, era consapevole dello stato dei luoghi e/o avrebbe dovuto conoscere tali irregolarità.
Tali eccezioni non hanno pregio.
Quanto alla prima – che in realtà parrebbe ritenersi abbandonata in corso di causa – si evidenzia che all’art. 9 del rogito del 1997 il Lamberti esplicitava la presenza della concessione in sanatoria n. 439/1993 – richiesta nel 1986 dal proprio dante causa – e negava che dopo tale concessione fossero intervenute modificazioni tali da richiedere provvedimenti autorizzativi o concessori.
Tuttavia le opere abusive di causa risultano essere state realizzate dopo il rilascio della predetta concessione, giacché nella documentazione fotografica allegata alla stessa si evince che la conformazione del tetto del locale cucina al momento in cui la sanatoria è stata rilasciata (giugno 2003) era diversa rispetto a quella esistente al momento del sopralluogo effettuato dal consulente della parte nel giugno 2010 ed esaminata dal CTU (cfr. all. F del doc. 5 di parte attrice).
In ordine alla seconda eccezione – conoscenza dell’acquirente – va osservato come il venditore, al fine di eseguire esattamente la propria prestazione, doveva rendersi parte diligente a verificare lo stato dei luoghi oggetto della compravendita, e informare l’acquirente delle irregolarità che si riscontravano nei locali. Il fatto che essa, nella migliore delle ipotesi, non avesse fatto una necessaria verifica, denota ugualmente una sua negligenza, e quindi un atteggiamento colposo per inesatto adempimento degli obblighi scaturenti dal contratto.
Il convenuto, nel caso di specie, non solo non ha dimostrato la conoscenza da parte dell’acquirente dell’abusività della porzione immobiliare, ma anzi aveva espressamente garantito, nel contratto di vendita, che la stessa fosse libera da oneri o altri aggravi; per tale ragione l’esistenza dell’irregolarità rimase ignota al L. fino a quando il medesimo decise di rivendere l’appartamento nel giugno 2010; momento da cui peraltro va fatta decorre la prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2935 c.c..
Posto che si è presenza di pesi occulti gravanti sull’immobile, è irrilevante che il compratore lo avesse visionato una o due volte prima dell’acquisto, così come il fatto che nel corpo del rogito vi fosse la formula di accettazione del bene “nello stato di fatto e diritto in cui attualmente si trova”, in quanto trattasi di una clausola di stile inidonea a superare l’obbligo di garanzia incombente sull’alienante (cfr. anche Cass. n. 21189/2013).
Il R.L. ha altresì eccepito un concorso colposo della controparte ex art. 1227 c.c. per aver omesso di comunicargli tale scoperta, così impedendogli di intervenire per evitare o limitare i danni, nonché il fatto che il tempo trascorso avrebbe ormai precluso l’esercizio del potere repressivo della P.A. mediante l’adozione di sanzione amministrativa e provvedimenti ripristinatori, neutralizzando l’operatività dell’art. 1489 c.c..
Anche tali rilievi vanno disattesi.
Da un lato non è dato sapere come il R.L. avrebbe potuto intervenire nell’affare altrui al fine di arginarne i pregiudizi maturati; ciò anche a fronte delle valutazioni di congruità espresse ex post dal CTU.
Dall’altro l’abuso edilizio, nelle forme d’illecito amministrativo, non incontra termini di prescrizione, poiché una volta che venga accertata l’esistenza dell’opera abusiva, l’adozione del provvedimento di demolizione è legittima in qualunque momento, salvo il caso eccezionale – qui non ricorrente – in cui l’esercizio dei poteri amministrativi repressivi si scontra con il legittimo affidamento del cittadino maturato nel frattempo circa la permanenza dell’opera stessa.
Alla luce di quanto esposto, pertanto, va anzitutto accolta la domanda di risarcimento del danno con riferimento alle opere necessarie per rimediare alle difformità rilevate nell’immobile, danno quantificato dal CTU in € 10.000,00; trattandosi di debito di valore, su tale somma deve riconoscersi la rivalutazione secondo gli indici Istat dalla data in cui il danno si è verificato o comunque è stato conosciuto (novembre 2010) fino a quella della presente sentenza, e gli interessi legali, che vanno calcolati inizialmente sull’importo capitale su riportato e, per gli anni successivi, sulle ulteriori frazioni via via risultanti dalla rivalutazione annuale. Sull’importo complessivo come determinato, spettano poi gli interessi legali dalla data della presente sentenza fino a quella del saldo effettivo.
La domanda risarcitoria va, inoltre, accolta in relazione al minor valore dell’immobile promesso in vendita nel giugno 2010 dall’attore e rinegoziato subito dopo la scoperta delle irregolarità edilizie e la necessità di ripristino nello stato legittimo.
Anche tale quantificazione è stata operata dal CTU in € 63.000,00, quale 20% di svalutazione in ragione della riduzione d’altezza del vano cucina con la diminuita capacità areoilluminante, nonché della perdita del terrazzino soprastante.
Sotto tale profilo il Tribunale ritiene tuttavia di non adeguarsi interamente alla stima compiuta dal consulente, che nella defalcazione ha valorizzato anche la perdita del terrazzino costruito sulla copertura del vano cucina abusivamente rialzato con superficie resa piana invece che con falda obliqua.
Tale lastrico panoramico, difatti, non sembra sia mai stato oggetto di valutazione nei vari affari che hanno coinvolto l’unità immobiliare in esame.
È sufficiente al riguardo prendere in considerazione sia il rogito stipulato tra le parti nel 1997, sia il contratto preliminare sottoscritto nel 2010 tra il convenuto e i terzi, sia la relazione elaborata dal tecnico incaricato da questi ultimi.
Benché negli atti si faccia riferimento a una “terrazza”, questa ovviamente non coincide con il predetto lastrico, ma si riferisce a quella confinante con la cucina con affaccio su Corso I., tutt’ora esistente (vds. anche doc. 3 di parte attrice e immagini allegate alla perizia del CTU). Quindi, benché il terrazzino non sia stato considerato preponderante nella valutazione data dal CTU, ciò nondimeno il giudicante ritiene congruo che dal valore complessivamente stimato possa decurtarsi l’importo di € 8.000,00, di modo da quantificare il minor valore dell’immobile in € 55.000,00; trattandosi di debito di valore, anche su tale somma vanno riconosciuti rivalutazione e interessi nei medesimi termini di cui sopra.
Per il resto le risultanze emergenti dalla relazione di consulenza tecnica d’ufficio sono pienamente condivise dal Tribunale, in quanto immuni da vizi logici e di metodo, oltre che frutto di un congruamente ed ampiamente motivato iter espositivo.
Né possono condividersi peraltro le richieste del convenuto dirette a ottenere un’integrazione dell’accertamento peritale in ordine al valore differenziale dell’immobile ancorato al 1997 – laddove in quel momento fossero state effettuate le opere di regolarizzazione – atteso che il lucro cessante ex art. 1223 c.c. si concreta nell’effettivo accrescimento patrimoniale pregiudicato o impedito dall’inadempimento della obbligazione contrattuale, che va ancorato al momento in cui tale vulnus si manifesta, tenuto conto peraltro che l’andamento del mercato immobiliare ha notoriamente subito una crescita considerevole nei primi anni del nuovo millennio; di conseguenza, il pregiudizio subito dall’attore va parametrato anche in un’ottica di investimento immobiliare, con riferimento all’anno 2010.
Ciò detto, quindi, il convenuto deve essere condannato a risarcire alla controparte il complessivo danno di € 65.000,00, oltre rivalutazione secondo gli indici Istat dalla data in cui il danno si è verificato o comunque è stato conosciuto (novembre 2010) fino a quella della presente sentenza, e gli interessi legali, che vanno calcolati inizialmente sull’importo capitale su riportato e, per gli anni successivi, sulle ulteriori frazioni via via risultanti dalla rivalutazione annuale.
Sull’importo complessivo come sopra determinato, spettano poi gli interessi legali dalla data della presente sentenza fino a quella del saldo effettivo.
Non si ritiene, invece, fondata la domanda diretta a ottenere il ristoro delle somme sostenute dall’attore per accendere il mutuo onde fronteggiare l’acquisto dell’immobile in Marsiliana avvenuto con contratto del 29.11.2010 (cfr. docc. 11 e 12 di parte attrice).
In primis si osserva che il compromesso avente a oggetto l’immobile di Marsiliana fu concluso due mesi prima del preliminare di vendita dell’appartamento di Orbetello, facendo quindi desumere che il L. ritenesse già da allora di disporre dei fondinecessari per procedere all’acquisto, indipendentemente dall’eventuale, futura vendita dell’appartamento di Corso I. In secondo luogo la contrazione del predetto mutuo non può costituire una conseguenza normale dell’inadempimento del R.L. in base a un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di ordinaria diligenza; anche in ragione delle concrete condizioni del prestito negoziate dall’attore e della mancata prova della propria urgenza finanziaria giustificante l’operazione de qua.
È altresì da respingere l’istanza di risarcimento del danno non patrimoniale integrato dallo straordinario carico di stress e patema d’animo generato dagli eventi di causa.
Intanto, si deve escludere la risarcibilità del danno morale ex art. 185 c.p., posto che non è ravvisabile alcun fatto di reato.
Parimenti, si deve escludere che tale risarcibilità possa essere riconosciuta in virtù del combinato disposto dell’art. 2059 c.c. con norme di rango costituzionale.
Com’è noto, secondo la ormai consolidata giurisprudenza della Suprema corte, che ha avuto la sua più autorevole espressione nelle sentenze a Sezioni Unite cd. di San Martino, nel nostro ordinamento il danno non patrimoniale, nella sua accezione omnicomprensiva, può essere liquidato, oltre che nelle ipotesi di danni conseguenti a fatti di reato e nei casi espressamente contemplati da norme specifiche, qualora il fatto illecito altrui vulneri diritti inviolabili della persona costituzionalmente protetti – quali il diritto alla salute ed alle relazioni familiari – purché la lesione sia grave ed il danno sia serio, e ciò al fine di attuare il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso il soggetto danneggiato e quello di tolleranza, che la convivenza impone (art. 2 Cost.).
La tutela non è poi ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost., ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.
Tuttavia, una volta chiarito che i fatti di causa non costituiscono reato e che, quindi, non può trovare applicazione la norma dell’art. 185 c.p., non risulta ricorrere neppure la lesione grave minante la salute dell’attore, il quale afferma che la vicenda de qua gli avrebbe provocato un forte stato di sofferenza e turbamento, tale da determinare il ricovero ospedaliero per un episodio di emergenza ipertensiva (cfr. doc. 15 allegato alla citazione), il quale tuttavia risulta avvenuto a distanza di oltre un mese dalla chiusura di ogni questione e per un evento diagnosticato che verosimilmente potrebbe ricondursi a una patologia genetica di carattere ereditario indicata nello stesso referto ospedaliero (“familiarità per malattie cardiovascolari”).
L’accoglimento parziale della domanda attorea giustifica la compensazione parziale delle spese di lite nella misura di 1/2 ai sensi dell’art. 92, co. 2 c.p.c., residuando viceversa la residua quota a carico di parte convenuta che viene liquidata nel dispositivo secondo i criteri di cui al DM 55/2010.
A carico del convenuto vengono poste, infine, le spese della CTU espletata.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita anche formulata in via istruttoria, così dispone:
1) accoglie la domanda nei limiti di parte motiva e, per l’effetto, condanna R.L. a pagare a L.M. la somma di € 65.000,00, oltre alla rivalutazione e agli interessi legali su tali somme intervenuti dal 5.11.2010 e fino alla data della presente sentenza e oltre agli ulteriori interessi legali maturati sull’importo complessivo come sopra calcolato dalla data della sentenza fino al saldo effettivo;
2) compensa le spese di lite nella misura di 1/2 ex art. 92, co. 2 c.p.c.;
3) condanna parte convenuta a rifondere all’attore la residua quota di 1/2 delle spese di lite, liquidata in € 590,00 per esborsi ed € 6.715,00 per compensi, oltre IVA, CPA e spese generali (15%) come per legge;
4) pone le spese di CTU, liquidate in atti, definitivamente a carico del convenuto.
Grosseto, 12 gennaio 2020
Il Giudice Mario Venditti