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Diritto immobiliare Locazione: valida la clausola che addossa al conduttore tutti i tributi sull’immobile

Locazione: valida la clausola che addossa al conduttore tutti i tributi sull’immobile

Cassazione civile, SS.UU., sentenza 08/03/2019 n° 6882

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Primo Presidente f.f. –

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente di Sezione –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1466/2016 proposto da:

S.S.C. SOCIETA’ SVILUPPO COMMERCIALE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE AVEZZANA 45, presso lo studio dell’avvocato LORENZA DOLFINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ATTILIO TOPPAN;

– ricorrente –

contro

METEORE ITALY S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VICOLO DELL’ORO 24, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO COEN, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO RUBEN;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1746/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 15/10/2015;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/03/2018 dal Consigliere LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati Attilio Toppan, Roberto Coen e Maurizio Ruben.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 29/10/2015 la Corte d’Appello di Firenze ha respinto il gravame interposto dalla società S.S.C. – Società Sviluppo Commerciale s.r.l. in relazione alla pronunzia Trib. Prato n. 365/15, di rigetto della domanda di accertamento e declaratoria del vantato diritto alla restituzione degli importi versati alla società Meteore Italy s.r.l. giusta contratto in data 18/11/2003 di locazione ad uso ufficio per la durata di anni 18- di complesso immobiliare sito in (OMISSIS), asseritamente non dovuti stante la dedotta nullità della clausola ex art. 7.2, secondo cui “Nel corso dell’intera durata del… contratto: (i) Il Conduttore si farà carico di ogni tassa, imposta e onere relativo ai Beni Locati ed al presente Contratto tenendo conseguentemente manlevato il Locatore relativamente agli stessi, (ii) il Locatore sarà tenuto al pagamento delle tasse, imposte e oneri relativi al proprio reddito”.

Nullità asseritamente discendente dall’essere la detta clausola in realtà volta “a riversare l’onere tributario relativo all’ICI e all’IMU gravanti sull’immobile locato, su un soggetto diverso da quello passivo tenuto per legge a subire il relativo sacrificio patrimoniale, e quindi in chiaro contrasto con il principio, costituzionalmente sancito, di concorso alla spesa pubblica in ragione della (e non oltre la) propria capacità contributiva”, nonchè “con la L. n. 392 del 1978, art. 89, che non indica in alcun modo, tra gli oneri accessori a carico del conduttore, ivi tassativamente elencati, anche le imposte patrimoniali relative ai beni locati”.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la società S.S.C. – Società Sviluppo Commerciale s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi illustrati da memoria, cui resiste con controricorso la società Meteore Italy s.r.l., che ha presentato anche memoria.

Chiamata all’udienza del 29/3/2017, con ordinanza interlocutoria n. 28437 del 2017 la Terza Sezione di questa Corte ha osservato che il giudice del gravame ha nell’impugnata sentenza ritenuto valida la (sopra riportata) clausola di cui all’art. 7.2 del contratto di locazione ad uso diverso da abitazione in argomento, non prevedendo essa un obbligo diretto della conduttrice verso il fisco di pagamento delle imposte a vario titolo gravanti sull’immobile, bensì meramente che “si faccia carico, nei confronti della locatrice, dei relativi oneri”, a tale stregua tale pattuizione non determinando nella specie una traslazione in capo alla conduttrice delle imposte gravanti sull’immobile a carico della proprietaria/locatrice, bensì la mera integrazione del canone di locazione dovuto.

Ha posto in rilievo che le doglianze della conduttrice si sostanziano nella mancata verificazione da parte dei giudici di merito della sussistenza nel caso dei requisiti (inclusione nel sinallagma contrattuale; mancata sottrazione del soggetto passivo dell’obbligo tributario) individuati da Cass., Sez. Un. 6445 del 1985 perchè la clausola di traslazione d’imposta possa ritenersi non contrastante con gli artt. 53 e 2 Cost., e pertanto valida.

Ha sottolineato che il canone risulta nel caso predeterminato alla stregua dell’apposita pattuizione di cui ai distinti artt. 4 e 5 del contratto, laddove la clausola 7.2. ha ad oggetto direttamente il tributo, non potendo pertanto ritenersi rispondere alla volontà delle parti l’integrazione del canone di locazione mediante una clausola rubricata “Tasse”, sicché essa è in realtà estranea al sinallagma contrattuale.

Non riconoscendo pregio all’assunto della locatrice secondo cui la L. n. 212 del 2000, art. 8 (c.d. Statuto del contribuente), nel prevedere (recependo il principio affermato da Cass., Sez. Un., n. 6445 del 1985) “l’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del contribuente originario”, ha espressamente ammesso la negoziabilità del debito d’imposta, con l’unico limite posto dell’impossibilità di liberare l’originario contribuente, la Sezione rimettente ha sottolineato come la liceità del patto di traslazione dell’imposta involga in termini più generali la problematica se l’obbligo costituzionalmente rilevante di concorrere alle spese pubbliche in ragione della rispettiva capacità contributiva abbia un significato anche soggettivo (nel senso che il relativo adempimento debba non solo essere compiuto oggettivamente in modo completo, ma altresì esclusivamente dal soggetto che per legge ne ha l’obbligo, con impossibilità pertanto di trasferire il debito tributario a soggetto diverso) ovvero esclusivamente oggettivo (nel senso di obbligo da assolvere in quanto giustificato da espressione di capacità contributiva).

Problematica che presuppone la soluzione del quesito se, al di là delle ipotesi in cui vi siano divieti espressi di traslazione da parte di specifiche norme tributarie, l’art. 53 Cost. – che da tempo si ravvisa quale norma di natura imperativa, e quindi come direttamente precettiva – possa ritenersi costituire un limite generale all’autonomia privata in tema di individuazione del soggetto passivo dell’imposta, impedendo alle parti private di neutralizzare pattiziamente gli effetti della capacità contributiva; nonchè di quello se la sussistenza di un limite all’autonomia negoziale possa essere presidiato dall’istituto della nullità, in relazione ad un accordo di traslazione palese di imposta patrimoniale posto in una scrittura contenente un contratto a prestazioni corrispettive, qual è il contratto di locazione de quo.

La Sezione rimettente ha quindi osservato come, pur essendo da tempo chiamata ad affrontare la tematica in argomento, questa Corte non sia al riguardo invero pervenuta ad “un’uniformità ermeneutica”.

Facendo in particolare richiamo a Cass., Sez. Un., n. 5 del 1985 e a Cass., Sez. Un., n. 6445 del 1985, da cui discende il “filone giurisprudenziale più noto – e di cui maggiormente si sono qui avvalse le parti nel loro analitico contraddittorio -“, essa ha anzitutto premesso che, come “rilevato fin da S.U. 18 dicembre 1985 n. 6445”, la problematica in argomento rimane “estranea alla normativa comunitaria”, in quanto “discendente esclusivamente dall’incidenza dell’art. 53 Cost., quale norma in via diretta precettiva sull’autonomia negoziale”.

Ha avvertito che la pronunzia Cass., Sez. Un., n. 6445 del 1985 (l'”arresto nomofilattico che finora… ha maggiormente governato” la tematica, ed “ormai ben risalente”) ha in realtà confermato la (di poco precedente) pronunzia n. 5 del 1985 nella parte in cui ha riconosciuto natura “imperativa”, come tale “preclusiva di patti negoziali che ne comportino l’esclusione”, alla norma in tema di capacità contributiva, sicchè l’art. 53 Cost., “si pone come fonte immediata e imperativa la cui valutazione può comportare la sanzione della nullità delle manifestazioni di autonomia negoziale con esso confliggenti”.

Ha segnalato che la “dottrina, a sua volta, non è compatta in modo assoluto” in argomento, e che “entrambe le sentenze sono state… criticate da certa dottrina per non avere chiarito le ragioni di tale affermazione”.

Ha posto in rilievo che la “questione… sulla validità di un accordo di traslazione degli oneri fiscali… estraneo al sinallagma del contratto in cui è inserito si impernia sul comprendere se vi sia una compressione all'(rectius, dell’) autonomia negoziale che imponga agli interessi economici un limite giuridico”.

Ha sottolineato che, pur dovendo la norma di cui all’art. 53, qualificarsi come “imperativa”, rivolta cioè “anche ai comportamenti dei privati”, resta comunque “dubbia l’applicabilità dell’art. 1418 c.c., comma 1, ai patti di traslazione dell’imposta per impossibilità di desumere dall’impianto costituzionale un divieto generalizzato al trasferimento dell’onere del tributo a terzi”.

Osserva che nell’ambito della “tematica contigua dell’abuso del diritto” si è invero “riconosciuto (Cass. sez. 5, 21 ottobre 2005 n. 20398) che “la mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali attuato attraverso il collegamento negoziale, costituisce, a prescindere da una sua valenza come indizio di simulazione oggettiva o interposizione fittizia, un difetto di causa” generante, ai sensi degli art. 1418 c.c., comma 2, e art. 1325 c.c., n. 2,, nullità dei contratti collegati perchè da essi “non consegue per le parti alcun vantaggio economico all’infuori del risparmio fiscale”.

Stante la ravvisata “attuale presenza di elementi dubbi, tenuto conto appunto della risalenza degli interventi delle Sezioni Unite e valutata la notevole valenza nomofilattica della questione, in quanto correlata alla diretta precettività dell’art. 53 Cost. – per la quale necessariamente evolutiva lettura ben potrebbe incidere pure il nuovo quadro sistemico come discendente dai tratti, benchè ratione temporis qui non applicabili, di recente inseriti nello Statuto del contribuente -“, la Terza Sezione ha rimesso la causa al Primo Presidente, che l’ha assegnata alle Sezioni Unite.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1 motivo la ricorrente denunzia “violazione o falsa applicazione” dell’art. 1418 c.c., artt. 2 e 53 Cost., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Si duole che la corte di merito abbia erroneamente affermato che “le clausole di un contratto di affitto di immobili non abitativi che non prevedano un obbligo diretto del conduttore verso il fisco di pagare le imposte che gravano sull’immobile, ma soltanto un obbligo dello stesso conduttore verso il locatore di sostenere il relativo onere, non urterebbero, tout court, contro il precetto” costituzionale “inderogabile di cui all’art. 53 Cost., in collegamento con l’art. 2 Cost., a tenore del quale tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva”.

Lamenta che il “radicale assunto di incondizionata liceità del fenomeno della c.d. traslazione delle imposte gravanti sull’immobile oggetto di un contratto di locazione ad uso non abitativo” risulta del tutto indimostrato nella sentenza impugnata, e invero “neppure desumibile dai principi… formulati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di traslazione dell’imposta nei contratti di mutuo, a partire dalla nota sentenza della Suprema Corte, Sez. Un., n. 6445/1985, con la quale era stato sovvertito l’opposto orientamento espresso dalla stessa Suprema Corte con la sentenza n. 5/1985, che aveva dichiarato la nullità, per contrasto con l’art. 53 Cost., della clausola del contratto di mutuo che poneva a carico del mutuatario l’obbligo di rimborsare al mutuante un importo pari alle imposte sul reddito del mutuante afferenti gli interessi convenuti”.

Si duole non essersi dalla corte di merito considerato che con “la succitata pronuncia a Sezioni Unite… (e con successive sentenze sempre riferite a clausole di traslazione d’imposta inserite in un contratto di mutuo) la Corte di Cassazione non ha in alcun modo inteso sancire un principio generale relativo alla legittimità costituzionale di qualsivoglia patto che importi traslazione palese dell’onere delle imposte, gravanti sul soggetto passivo, su altro soggetto”, ma solo affermare, limitatamente “al concreto caso di specie oggetto di quella pronuncia”, che dall'”applicazione della disposizione pattizia portata al suo esame non conseguiva, in concreto, alcuna violazione del principio, inderogabilmente sancito dalla Costituzione, di concorso alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva”.

Lamenta essersi dalla corte di merito erroneamente ritenuta la “liceità del fenomeno della traslazione dell’imposta”, e in particolare la conformità a Costituzione della clausola prevedente, in un contratto di locazione commerciale, la “traslazione di un’imposta patrimoniale (e, cioè, prima dell’ICI e poi dell’IMU, ossia di un’imposta che ha quale presupposto la sussistenza, in capo a determinati soggetti, di diritti particolarmente incisivi sull’immobile oggetto di tassazione) gravante sul locatore, su un soggetto (il conduttore) espressamente escluso dalla legge dal novero degli obbligati nei confronti del fisco”.

Si duole non essersi dalla corte di merito considerato che “anche secondo la richiamata giurisprudenza delle Sezioni Unite, una clausola avente ad oggetto la traslazione palese di un’imposta è certamente nulla per violazione degli artt. 53 e 2 Cost., non solo se diretta a sottrarre un contraente al carico tributario, ma pure se la stessa sia preordinata non a integrare il prezzo della prestazione negoziale, ma ad affiancarsi al sinallagma già perfetto, avendo ad oggetto il tributo in quanto tale (e non una somma di pari importo)”.

Situazione che appunto “si verifica nel caso in esame, nel quale la clausola di cui all’art. 7.2 (i) del Contratto non ha affatto la funzione, nell’economia del negozio, di integrare il corrispettivo del godimento del bene concesso dal locatore al conduttore, in quanto da un lato, essa risulta del tutto estranea (anche perchè assolutamente svincolata e non correlata all’uso del bene) al sinallagma proprio del contratto di locazione commerciale, già perfetto nel rapporto tra godimento del bene e pagamento del canone; dall’altro lato, essa ha l’evidente funzione di addossare al conduttore una spesa o un “costo” inerente al bene locato e quindi oneri ben distinti anche concettualmente dal “canone di locazione”, giustamente considerati dalla giurisprudenza… “del tutto fuori dal sinallagma contrattuale” (in questo senso, cfr., Cass. n. 12769/1998)”.

Lamenta che nella specie “il corrispettivo del godimento del bene locato è costituito unicamente dal canone”, essendo stato esso “predeterminato dalle parti con apposita e distinta pattuizione”, nè potendo d’altro canto in alcun modo ravvisarsi “alcuna comune volontà delle parti nel senso di aver inserito la clausola denominata “Tasse” al fine di integrare la voce “canone””, giacché la clausola de qua ha “ad oggetto direttamente il tributo (e non una “somma di pari importo”), come… esemplarmente dimostrato dal comportamento di Meteore, che ha sempre “rifatturato” a SSC i tributi pagati come rimborso di somme meramente anticipate per conto della locatrice (e, come tali, non le ha assoggettate all’IVA), come se il tributo gravasse direttamente su SSC”.

A tale stregua, diversamente da quanto dalla corte di merito affermato nell’impugnata sentenza, la “presenza di una clausola che si affianca al sinallagma perfetto, preordinata ad operare inammissibilmente lo snaturamento dell’obbligo tributario e, dunque, di un patto nullo in quanto l’imposta patrimoniale, anche se corrisposta al fisco dal locatore, grava in realtà sul conduttore, in modo da garantire allo stesso locatore, in relazione alla medesima imposta, una neutralità fiscale”.

Si duole non essersi dalla corte di merito considerato che nel caso “il locatore intendeva addossare direttamente al Conduttore qualsiasi onere di natura fiscale derivante dalla proprietà del bene locato, convenendo così che Meteore, pagando all’erario le imposte patrimoniali gravanti sui beni locati, avrebbe in realtà agito come una sorta di “sostituto di imposta” di SSC o come un suo mero “delegato al pagamento” di dette imposte patrimoniali, mentre Meteore sarebbe rimasta direttamente onerata del pagamento delle sole imposte relative al proprio reddito”, sicchè il “senso della clausola unitamente considerata… non può essere che quello (non colto dalla Corte) di una inammissibile ripartizione pattizia tra le parti degli oneri tributari gravanti, per legge, sul solo locatore, per cui il locatore indica quale tenuto al pagamento delle imposte patrimoniali sull’immobile unicamente il conduttore, mentre si riconosce obbligato solo per le imposte relative al reddito”, a tale stregua venendo ad “irrimediabilmente” violare “sotto entrambi i profili evidenziati da Cass., S.U. n. 6445/1985 (mancata funzione integrativa del prezzo e sottrazione del locatore agli oneri tributari relativi alle imposte patrimoniali gravanti sull’immobile locato) l’art. 53 Cost., in collegamento con l’art. 2 Cost.”.

Con il 2 motivo denunzia “violazione o falsa applicazione” degli artt. 1362, 1363 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che la corte di merito abbia erroneamente interpretato “la clausola di cui all’art. 7.2 i) del Contratto”, là dove l’ha intesa come contemplante una componente integrativa della misura del canone stabilito all’art. 4 del contratto.

Ancora, nella parte in cui ha sottolineato che “Quanto alla fatturazione del rimborso degli oneri per imposte di cui a(l) citato art. 7.2 (i), indicata come rifatturazione, senza la contestuale imputazione dell’IVA… essa può al più comportare possibili implicazioni fiscali di cui si farà carico l’appellata ove ritenute esistenti dagli uffici erariali, ma pare comunque coerenziarsi con la natura di rimborso di tale componente del canone, poichè è ben vero che le relative imposte sono pur sempre sostenute dal proprietario dell’immobile e l’ente impositore (Stato, Comune o altro) individua in esso il soggetto che è tenuto a farvi fronte, ma questo si disinteressa se poi, per accordo privato, i contraenti scelgano di operare un rimborso (in tal senso deve interpretarsi l’uso della parola manlevare) o una diversa forma di pagamento variamente posta a carico del conduttore”.

Là dove ha infine osservato che la “mancanza di maggiorazione di I.V.A. sulla parte di canone corrispondente alle imposte non sembra comportare una prova che si tratti di un mero rimborso svincolato dal canone e, quindi, costituire un ingiustificato vantaggio per il locatore, altra questione essendo, come detto, chi dovrà versare all’ente impositore la parte di imposta (ad esempio per I.C.I. o I.M.U.) ad esso facente carico”.

Lamenta che a tale stregua la corte di merito ha “violato, innanzitutto, il primario canone ermeneutico sancito dall’art. 1362 c.c., comma 1, avendo attribuito alle parole usate dalle parti un significato del tutto diverso e incompatibile con il loro senso letterale”, atteso che all'”art. 7.2 (i) del Contratto… le parti hanno espresso, con assoluta chiarezza, la loro intenzione di regolamentare, non la misura del canone, ma soltanto il “rimborso” degli oneri fiscali da parte del Conduttore, avendo utilizzato esclusivamente le parole “tasse, imposte e oneri”, senza fare alcun riferimento o richiamo al canone e alla sua misura, pattuita nell’art. 4 del Contratto (e nell’art. 5, per quanto riguarda la variazione annuale in base all’Indice Istat…), nè hanno utilizzato alcuna espressione dalla quale possa evincersi che “tasse, imposte e oneri” siano da intendersi come una “componente integrante” la misura del canone, mentre hanno utilizzato la parola “manlevare” che, secondo quanto affermato dalla stessa Corte d’Appello, significa “rimborsare”… e il canone, quale unica prestazione in rapporto sinallagmatico con il godimento del bene locato, non può, concettualmente, costituire un “rimborso” (di una spesa o di un onere sostenuto dal Locatore) da parte del Conduttore”.

Si duole non essersi dalla corte di merito considerato, “in relazione al criterio di cui all’art. 1363 c.c.”, da un canto, che “l’art. 7.2) del Contratto è, a sua volta, sistematicamente collocato sub art. 7), rubricato “Contributi, Tasse, Imposte e spese amministrative”, il quale ha ad oggetto, con tutta evidenza, soltanto il “rimborso di spese ed oneri, ivi compresi gli oneri accessori di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 9, mentre il canone è disciplinato solo dall’art. 4 del Contratto”; e, per altro verso, che “per quasi dieci anni nel corso del rapporto di locazione e fino all’insorgere della controversia… Meteore”, la società locatrice non aveva “mai assoggettato all’IVA il rimborso degli importi ICI e IMU rifatturati a SSC, mentre aveva sempre applicato l’IVA sugli importi fatturati a titolo di canoni di locazione”.

Si duole che, in violazione del “c.d. principio di ordinazione gerarchica”, e con “motivazioni inammissibili, incongrue e illogiche”, nonchè con un “ragionamento evidentemente incongruo rispetto alla finalità di stabilire se le parti abbiano voluto pattuire il rimborso al locatore delle imposte di cui all’art. 7.2 (i) quale componente del canone o come mero rimborso svincolato dal canone”, la corte di merito abbia fatto nel caso ricorso a “criteri ermeneutici subordinati”.

Con il 3 motivo denunzia “violazione o falsa applicazione” dell’art. 1418 c.c., L. n. 392 del 1978, artt. 79, 41 e 9, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta l’erronea applicazione da parte della corte di merito dei “canoni legali di ermeneutica contrattuale” là dove ha qualificato come “componente integrante del canone il mero “rimborso” delle imposte previsto dall’art. 7.2 (i) del Contratto”, in quanto, “applicando correttamente i predetti canoni ermeneutici, risulta evidente che, con la pattuizione di detta clausola, le parti abbiano inteso addossare al conduttore un onere accessorio o, comunque, di imporgli il pagamento di somme del tutto sganciate da una controprestazione (diversa dalla mera concessione del godimento del bene) a carico del locatore”, il quale “mediante detta clausola” si è “assicurato unicamente il rimborso di tasse e imposte immobiliari (ICI e IMU) che la legge prevede esclusivamente a suo carico, trasferendo sul conduttore un onere che è del tutto svincolato dal godimento o fuori dello schema del sinallagma contrattuale, perfettamente definito nel rapporto tra prestazione (godimento del bene) e relativa controprestazione (canone)”.

Si duole non essersi considerato che “il rimborso al locatore delle imposte patrimoniali gravanti sul bene locato… non è affatto una spesa “strettamente connessa/collegata” all’uso del bene locato, posto che, da un lato, lo stesso può essere legittimamente utilizzato dal conduttore indipendentemente dall’adempimento delle obbligazioni tributarie ad esso relative e gravanti, per legge, sul solo locatore; dall’altro, le imposte patrimoniali (ICI e IMU) oggetto dell’art. 7.2 (i) del Contratto sono state istituite dal legislatore unicamente per colpire una capacità patrimoniale specifica del proprietario del bene, indipendentemente dall’utilizzo dell’immobile”.

Lamenta che erroneamente la corte di merito non ha ritenuto la clausola in argomento nulla per violazione dell’art. 79 L. loc., laddove la “giurisprudenza di legittimità… ha sempre concordemente affermato la tassatività ed inderogabilità dell’elencazione degli oneri accessori addossati (ed addossabili) al conduttore”.

Con il 4 motivo denunzia “violazione o falsa applicazione” dell’art. 1418 c.c., L. n. 392 del 1978, artt. 79, 41 e 9, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che la corte di merito non abbia ravvisato la nullità dell’art. 7.2 (i) pur essendo esso “volto non già all’aggiornamento del canone sulla base dei criteri di legge, aggiornamento già espressamente pattuito tra l’altro dalle parti nell’art. 5) del Contratto, bensì ad attribuire al locatore veri e propri imprevedibili (com’è puntualmente avvenuto nel caso in esame, nel passaggio dall’ICI all’IMU) aumenti del canone, idonei quindi a determinare inammissibili squilibri nel sinallagma contrattuale, senza che il conduttore possa sottrarsi all’adempimento del contratto, realizzando così proprio l’effetto che le citate norme mirerebbero ad impedire”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono infondati.

La questione rimessa all’esame di queste Sezioni Unite è se sia valida la clausola di un contratto di locazione che attribuisca al conduttore di farsi carico di ogni tassa, imposta ed onere relativo ai beni locati ed al contratto, tenendone conseguentemente manlevato il locatore.

Come correttamente avverte l’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione, la soluzione della specifica questione rimessa all’esame di queste Sezioni Unite prospetta invero la più ampia problematica “se l’obbligo costituzionalmente rilevante di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva abbia un significato esclusivamente oggettivo – nel senso di obbligo di adempiere a quanto è giustificato dalla capacità contributiva – oppure anche soggettivo – nel senso che l’adempimento debba essere compiuto non solo oggettivamente in modo completo, ma altresì dal soggetto che per legge ne ha l’obbligo -, escludendosi quindi il trasferimento dell’obbligo ad un soggetto diverso”.

Al riguardo, si pone in particolare l’esigenza di chiarire, “tenendo ben in conto l’art. 53 Cost. -la cui natura è stata da tempo riconosciuta come imperativa, e quindi come direttamente precettiva – “, se, “a parte le ipotesi in cui vi siano espressi divieti di traslazione da parte di specifiche norme tributarie”, sulla “individuazione del soggetto passivo dell’imposta possa incidere l’autonomia negoziale privata, neutralizzando così gli effetti della capacità contributiva”.

Va anzitutto osservato che, atteso il tenore della riportata clausola contrattuale ((i) Il Conduttore si farà carico di ogni tassa, imposta e onere relativo ai Beni Locati ed al presente Contratto)… (ii) il Locatore sarà tenuto al pagamento delle tasse, imposte e oneri relativi al proprio reddito), nella specie, diversamente da quanto ha costituito oggetto dei casi esaminati dalle Sezioni Unite di questa Corte nelle evocate sentenze n. 5 del 1985 e n. 6445 del 1985, oggetto della clausola in argomento sono non già le imposte dirette gravanti sulla locatrice bensì meramente quelle gravanti sull’immobile e inerenti allo stipulato contratto.

Essendo stato esso stipulato nel novembre del 2003, non viene invero in rilievo l’INVIM, istituita con D.P.R. n. 643 del 1972, (in particolare quella decennale D.P.R. n. 643 del 1972, ex art. 3, comma 1), il cui art. 27 prevedeva la nullità di “qualsiasi patto diretto a trasferire ad altri l’onere dell’imposta” (v. Cass., 31/3/2014, n. 7501, ove si è posto in rilievo come la nullità del patto di traslazione dell’imposta fosse comminata dal D.P.R. n. 643 del 1972, art. 27, non solo per il rapporto con l’amministrazione finanziaria ma anche per quello tra i contraenti, attesa l’inderogabilità del presupposto soggettivo del tributo, rappresentato dal godimento della plusvalenza immobiliare; Cass., 27/1/2010, n. 1660; Cass., 6/11/2006, n. 23615; Cass., 10/5/1994, n. 4556, ove si è sottolineato che la nullità prevista dal D.P.R. n. 643 del 1972, art. 27, di qualsiasi patto contrario al divieto di trasferire l’onere della imposta a soggetti diversi da quelli tenuti al pagamento della stessa, individuati dal D.P.R. n. 643 del 1972, art. 4, non è comminata unicamente a tutela del fisco, ma incide anche nei rapporti tra le parti contraenti, quale che sia lo strumento negoziale direttamente azionato al fine della traslazione della imposta, comportandone la nullità, senza che rilevi la finalità pratica che a suo mezzo le parti intendono conseguire; Cass., 14/9/1991, n. 9608; Cass., 1/2/1984, n. 780; Cass., 11/12/1974, n. 4181).

E’ viceversa applicabile l’I.C.I., introdotta a decorrere dal 1993 (D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1), poi sostituita a decorrere dall’aprile 2012 dall’I.M.U. (D.Lgs. n. 23 del 2011), le cui relative discipline non contemplano invero norma analoga a quella di cui al sopra richiamato D.P.R. n. 643 del 1972, art. 27.

Deve del pari preliminarmente porsi in rilievo che (come sottolineato già da Cass., Sez. Un., 5/1/1985, n. 5 e ripreso nell’ordinanza di rimessione) la questione del patto traslativo d’imposta non espressamente vietato da specifiche norme di legge (al riguardo, oltre alla disciplina dell’INVIM sopra richiamata, va fatto in particolare richiamo alla L. n. 246 del 1963, art. 40, prevendente la sanzione della nullità per i patti diretti a trasferire l’onere fiscale ad altri che non siano i soggetti del contributo di miglioria; al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 18, sull’I.V.A.; al D.P.R. n. 643 del 1972, art. 16, in tema di imposta sugli spettacoli; al D.P.R. n. 634 del 1972, art. 60, in tema di imposta di registro; al D.P.R. n. 642 del 1972, art. 23, in tema di imposta di bollo; al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 23, 24, 25, 25 bis, 26, 27 e 28, per le imposte dirette) rimane invero estranea alla normativa comunitaria, attenendo alla mera disciplina interna (come risulta confermato in particolare da Corte Giust., 16/1/2014, n. 226 (C – 226/12) e da Corte Giust., 6/11/2011, n. 398 (C – 398/09), ove tale patto si è ritenuto di per sè non in contrasto con la normativa comunitaria, potendo assumere viceversa rilievo in caso di violazione di altri principi o norme, come ad esempio nell’ipotesi in cui esso determini un abusivo squilibrio nei contratti dei consumatori o integri l’abuso del diritto (in ordine al quale v. Corte Giust., 21/2/2006, C – 255/02)).

La tematica della traslazione dell’imposta è stata in particolare affrontata da queste Sezioni Unite in due pronunzie, emesse entrambe (in relazione a contratto di mutuo) nel 1985.

Con la prima di tali pronunzie si è in particolare affermato che è nulla – sia ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 1, che per contrasto con l’art. 53 Cost. -, la clausola con la quale – sia pure con effetti limitati al rapporto fra le parti – venga convenuta l’imposizione a carico del mutuatario di quanto il mutuante è tenuto a versare all’erario (nel caso, per IRPEG ed ILOR) in ragione dello stipulato contratto, stante l’immediato valore vincolante del principio del concorso di tutti alle spese pubbliche alla stregua della rispettiva capacità contributiva fissato dalla norma costituzionale, che si traduce nel divieto inderogabile per il debitore d’imposta – sia diretta che indiretta – di riversare il relativo onere su un altro soggetto, e quindi su un patrimonio diverso da quello rispetto al quale è contemplato il prelievo fiscale (v. Cass., Sez. Un., 5/1/1985, n. 5).

Nell’occasione le Sezioni Unite hanno argomentato dal rilievo che in base alla previsione di cui all’art. 53 Cost., tutti sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica in ragione della rispettiva capacità contributiva, e secondo il criterio della progressività dell’imposta.

Il sacrificio economico derivante dal pagamento del tributo, e cioè la riduzione patrimoniale conseguente all’adempimento, deve – si è precisato – essere sopportato effettivamente e definitivamente dal soggetto alla cui capacità contributiva si riferisce l’obbligazione, e non già da altri, l’art. 53 Cost., esigendo che ad una determinata capacità contributiva faccia seguito l’adempimento del dovere di concorrere alla spesa pubblica, ed escludendo che tale obbligo possa sorgere in capo a soggetto privo di capacità contributiva; come pure che un soggetto possa accollarsi – anche di fatto – il carico contributivo altrui, essendo contrario all’interesse della collettività che il concorso alla spesa pubblica gravi – anche di fatto- su soggetto diverso da colui che vi è tenuto ex lege, in quanto ogni soggetto dotato di capacità contributiva deve in misura corrispondente contribuire personalmente al costo dei servizi e dei vantaggi sociali.

Si è ulteriormente avvertito che nelle imposte dirette (in particolare, IRPEG e ILOR) la correlazione con la capacità contributiva è immediata, sicchè più pressante è l’esigenza che il tributo incida effettivamente sul soggetto obbligato per legge, e non su soggetti diversi; segnalandosi essere la rivalsa obbligatoria lo strumento idoneo a far concorrere alla spesa pubblica il titolare della capacità contributiva ogniqualvolta altri adempia alla correlata obbligazione tributaria (es., sostituto d’imposta).

La nullità del patto volto a trasferire (sia pure senza efficacia nei confronti dello Stato) su altri il peso del proprio dovere di solidarietà sociale di concorrere alla spesa pubblica si è ravvisato trovare ragione nella circostanza che, pur giovandosi dei vantaggi e dei benefici della vita associata, il soggetto obbligato ex lege in tal modo sottrae la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione.

Nel considerare inammissibile il patto traslativo d’imposta, in quanto idoneo a consentire al soggetto tenutovi per legge di giovarsi “dei vantaggi e dei benefici della vita associata” sottraendo “la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione”, con la sentenza n. 5 del 1985 le Sezioni Unite di questa Corte hanno dunque considerato in termini generali “vietato e nullo (ai sensi dell’art. 1418 c.c., comma 1, e per contrasto con l’art. 53 Cost.”) qualunque patto “con il quale un soggetto, ancorché senza effetti nei confronti dell’erario, riversi su altro soggetto, pur se diverso dal sostituto, dal responsabile d’imposta e dal cosiddetto contribuente di fatto il peso della propria imposta, sia che si tratti d’imposta diretta che di imposta indiretta”.

Con la sentenza n. 6445 del 1985 le Sezioni Unite di questa Corte hanno diversamente affermato che il patto traslativo d’imposta “è nullo per illiceità della causa contraria all’ordine pubblico solo quando esso comporti che effettivamente l’imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito”.

Ipotesi che si verifica “nelle ipotesi di rivalsa facoltativa, quando il sostituto viene a perdere la qualità tipica di mero anticipatore del tributo, non corrisposto al fisco, nè recuperato dal sostituto medesimo, sicchè effettivamente il dovere tributario non viene adempiuto, pur verificandosi un aumento di ricchezza del contribuente”. Non anche, nell’ipotesi in cui “l’imposta è stata regolarmente e puntualmente pagata dal contribuente al fisco, allorquando cioè l’obbligazione di cui si stipula l’accollo non ha per oggetto direttamente il tributo, nè mira a stabilire che esso debba essere pagato da soggetto diverso dal contribuente”, ma “riguarda… una somma di importo pari al tributo dovuto ed ha la funzione di integrare il “prezzo” della prestazione negoziale”.

Pur pervenendo a soluzione opposta a quella raggiunta nella sentenza n. 5 del 1985, in quest’ultima pronunzia le Sezioni Unite hanno posto invero a relativo fondamento gli stessi presupposti argomentativi della precedente, ribadendone la validità.

In particolare, hanno confermato “il carattere di centralità che il dovere tributario è venuto assumendo nella Costituzione repubblicana”, il cui art. 53, “si pone come fonte immediata ed imperativa la cui violazione può comportare la sanzione della nullità delle manifestazioni di autonomia negoziale con esso confliggenti”.

Hanno sottolineato che l'”autonomia privata non può alterare i connotati dei tributi diretti, strutturati in modo che “ad ogni capacità contributiva debba corrispondere inderogabilmente una riduzione del patrimonio del titolare della capacità contributiva stessa” (per mutuare l’espressione alla sentenza n. 5 del 1985, cit.), poichè, alla stregua dei principi scaturenti dal coordinamento degli artt. 2 e 53 Cost., esige che quel concorso, imposto al contribuente, incida sul suo patrimonio”.

Hanno ulteriormente posto in rilievo che nel “vigente sistema costituzionale tributario non basta oggettivamente che sia soddisfatta l’obbligazione verso il fisco, ma occorre altresì che tale obbligazione sia adempiuta dal soggetto tenuto a corrisponderla a cui carico gli artt. 53 e 2 Cost., pongono un dovere ribadito dall’art. 1, della legge della legge sul contenzioso tributario.

La prestazione imposta di carattere tributario postula infatti che “una quota di ricchezza sia sottratta a quel determinato soggetto” individuato dalla legge come “soggetto passivo del tributo”, con “correlativo sacrificio personale”.

Avvertendo la necessità di mantenere “fermo il discorso di fondo sulla portata dell’art. 53 Cost., e sulla sua attitudine a porsi come norma imperativa preclusiva di atti negoziali che ne comportino l’elusione”, queste Sezioni Unite hanno nell’occasione evidenziato come sia la rivalsa a rendere invero “neutrale” la tassazione in testa al sostituto, “presentandosi come un credito del… medesimo verso il contribuente pari alla somma di cui egli è debitore verso il fisco (e che ha già corrisposto)”, pervenendo quindi a concludere che “una pattuizione di esonero dalla rivalsa, se consentita, comporterebbe l’effetto di alterare immediatamente e direttamente il carico tributario perchè il patrimonio del contribuente non verrebbe inciso, non verificandosi da parte sua quell’esborso verso il fisco che realizza il doveroso carico tributario e non presentandosi qui con effetto compensativo l’incremento tassabile che ne consegue poichè tale ulteriore tassazione non vale a ripristinare il vuoto contributivo da cui è conseguito l’aumento di reddito, non essendo omologhe le situazioni in raffronto”.

Hanno quindi ritenuto che “con il contratto di locazione qui in esame le parti, sia pure con due distinte clausole contrattuali, hanno voluto determinare il canone locativo in due diverse componenti, rappresentate l’una dalla parte espressamente qualificata come tale ed oggetto della pattuizione contenuta nell’art. 4, e l’altra come componente integrante tale misura, costituita dalla pattuizione specificamente oggetto della domanda di nullità qui azionata (art. 7.2.(i))”.

Il principio delineato da Cass., Sez. Un., n. 6445 del 1985, condiviso dalla dottrina maggioritaria, ha successivamente ricevuto costante conferma da parte di questa Corte, venendo a costituire principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 3/6/1991, n. 6232, con riferimento al contratto di mutuo; Cass., 25/3/1995, n. 3577, relativamente all’imposta sulla pubblicità; Cass., 27/11/1999, n. 13261, in tema di intestazione fiduciaria di azioni; Cass., 29/11/2004, n. 22369, in ordine a contratto di locazione di immobile ad uso diverso da abitazione contemplante canone comprensivo anche degli oneri accessori; Cass., 18/11/2009, n. 24307, in tema di imposta sulla pubblicità; Cass., 25/2/2015, n. 3770, relativamente contratto di mutuo; Cass., 8/2/2016, n. 2412, in ordine a rapporto concessorio inerente alla gestione dei parchimetri di Roma).

Solamente in qualche pronunzia, in tema di imposte dirette, si è affermata la nullità dell’accollo delle imposte dovute sul reddito (v. Cass., Sez. Un., 23/4/1987, n. 3935 e Cass., Sez. Un., 26/6/1987, n. 5652, con riferimento ad accordi che esentino il lavoratore dipendente dalle ritenute del datore di lavoro a titolo di IRPEF. Cfr. altresì Cass., 29/5/1993, n. 6037, ove si peraltro precisato che la clausola che obblighi il mutuatario a rimborsare al mutuante le imposte dell’I.R.P.E.G. ed I.L.O.R., gravanti sul secondo, in relazione agli interessi percepiti sulla somma mutuata, è nulla per violazione di norme imperative di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 26 e 64, nel caso in cui il mutuatario (nell’ipotesi, società cooperativa) rientri tra i soggetti che, quali “sostituti” d’imposta sono obbligati ad effettuare una ritenuta, a titolo di acconto e con obbligo di rivalsa, sui redditi da capitale corrisposti (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23, comma 1), atteso che l’obbligo di rivalsa è espressione del principio che tutta l’imposta deve restare a carico del percettore del reddito (“sostituto” d’imposta) – principio applicabile, altresì, in tema di pagamento dell’I.L.O.R., trattandosi di imposta diretta, che non può ricadere su soggetto diverso dal possessore del patrimonio rappresentante la base per la determinazione della capacità contributiva -, e non può essere aggirato con la detta clausola, la quale obbliga il mutuatario a corrispondere al mutuante, sotto forma di rimborso dei tributi, un ulteriore reddito (a sua volta imponibile, ma ignoto al fisco)).

Orbene, il Collegio ritiene che le doglianze mosse dall’odierna ricorrente avverso l’impugnata sentenza non siano idonee a revocare in dubbio la correttezza della soluzione raggiunta nel 1985, e non inducano a dover rimeditare un orientamento interpretativo che al contrario merita di essere ulteriormente confermato.

La clausola contrattuale di cui all’art. 7.2 in argomento è stata nell’impugnata sentenza intesa come prevedente un’ulteriore voce o componente (la somma corrispondente a quella degli assolti oneri tributari) costituente integrazione del canone locativo, concorrendo a determinarne l’ammontare complessivo a tale titolo dovuto dalla conduttrice.

Orbene, tale clausola risulta dalla corte di merito nell’impugnata sentenza correttamente interpretata, alla stregua dei principi posti a fondamento del suindicato consolidato orientamento.

In particolare là dove, dopo aver premesso che il legislatore ha “ritenuto di vincolare l’autonomia negoziale dei contraenti soltanto per quanto attinente alla durata del contratto, alla tutela dell’avviamento e alla prelazione, mentre l’ammontare del canone locativo è lasciato alla libera determinazione delle parti, che possono ben prevedere l’obbligazione di pagamento per oneri accessori”, tale giudice, movendo dal dato letterale (in particolare avvertendo che la parola “manlevare” va intesa nel senso di “operare un rimborso” o “una diversa forma di pagamento variamente posta a carico del conduttore”) ha riguardato la clausola de qua alla stregua del complessivo tenore del contratto, al riguardo ponendo in rilievo come con “due distinte clausole contrattuali” di un “unico atto”, le parti abbiano nella specie inteso “determinare il canone in due diverse componenti, rappresentate l’una dalla parte espressamente qualificata come tale ed oggetto della pattuizione contenuta nell’art. 4”, e l’altra “come componente integrante tale misura, costituita dalla pattuizione specificamente oggetto della domanda di nullità qui azionata (art. 7.2 (i))”.

Ancora, nella parte in cui ha sottolineato che tale pattuizione in realtà trae origine dalle “negoziazioni intercorse tra le parti, sfociate nell’operazione di safe and lease back (in cui si inserisce il rapporto di locazione per cui è causa)”, nel cui quadro “il Consorzio Predica (Credit Agricole) – Generali formulava una offerta economica che prevedeva espressamente che ogni imposta immobiliare avrebbe dovuto rimanere a carico del conduttore”, che veniva accettata, “in quanto era la più conveniente tra quelle pervenute”, e quindi trasfusa “nel contratto quadro… che annoverava tra i propri allegati la bozza del contratto”.

Là dove ha ulteriormente posto in rilievo che la stessa previsione della “fatturazione del rimborso degli oneri per imposte di cui al citato art. 7.2 (i)” risulta invero coerente “con la natura di rimborso di tale componente del canone, poichè è ben vero che le relative imposte sono pur sempre sostenute dal proprietario dell’immobile e l’ente impositore (Stato, Comune o altro) individua in esso il soggetto che è tenuto a farvi fronte, ma questo si disinteressa se poi, per accordo privato, i contraenti scelgano di operare un rimborso” (sottolineando che in tal senso deve interpretarsi l’uso della parola “manlevare”) o “una diversa forma di pagamento variamente posta a carico del conduttore”.

Al dato letterale della clausola la corte di merito ha dunque attribuito significato -come detto- alla luce delle pregresse trattative, nonchè, e primieramente, dell’interesse pratico che con la stipulazione e la specifica previsione in argomento le parti hanno nella specie inteso in concreto realizzare.

A tale stregua, diversamente da quando sostenuto dall’odierna ricorrente, la corte di merito ha fatto invero piena e corretta applicazione del principio affermato da questa Corte in base al quale ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate va invero verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell’art. 1363 c.c., giacché per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. Cass., 28/8/2007, n. 828; Cass., 22/12/2005, n. 28479; 16/6/2003, n. 9626).

Questa Corte, ha già avuto più volte modo di sottolineare, superando il c.d. principio del gradualismo, come nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti il criterio letterale vada invero riguardato alla stregua degli ulteriori criteri legali d’interpretazione, e in particolare dei criteri (quali primari criteri d’interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto: v. Cass., 6/12/2018, n. 31574; Cass., 13/11/2018, n. 29016; Cass., 30/10/2018, n. 27444; Cass., 12/6/2018, n. 15186; Cass., 19/3/2018, n. 6675. V. altresì Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 27/6/2011, n. 14079; Cass., 23/5/2011, n. 11295; Cass., 19/5/2011, n. 10998; con riferimento agli atti unilaterali v. Cass., 6/5/2015, n. 9006) dell’interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c., (che consente di accertare il significato dell’accordo in coerenza appunto con la relativa ragione pratica o causa concreta: cfr. Cass., 13/11/2018, n. 29016) e dell’interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c. (che quale criterio d’interpretazione del contratto – fondato sull’esigenza definita in dottrina di “solidarietà contrattuale” – si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte (v. Cass., 6/5/2015, n. 9006; Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 25/5/2007, n. 12235; Cass., 20/5/2004, n. 9628), non consentendo di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass., 23/5/2011, n. 11295) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale (cfr., con riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez. Un., 18/2/2010, n. 3947)).

Orbene, correttamente la corte di merito ha nell’impugnata sentenza interpretato la clausola contrattuale in argomento alla luce della ragione pratica dell’accordo e del contratto, in coerenza con gli interessi che le parti hanno cioè nel caso specificamente inteso tutelare mediante lo stipulato contratto (v. Cass., 22/11/2016, n. 23701), convenzionalmente determinando la regola volta a disciplinare il loro rapporto negoziale (art. 1372 c.c.).

E’ infine appena il caso di osservare che, trattandosi di canone di locazione ab origine realmente pattuito, risulta nel caso invero non integrata la violazione del divieto posto all’art. 79 L. loc., (anche) alla stregua dell’interpretazione offertane dalla recente pronunzia di queste Sezioni Unite ove si è affermato essere insanabilmente nullo il patto con il quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato, a prescindere dall’avvenuta registrazione (v. Cass., Sez. Un., 9/10/2017, n. 23601).

All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le ragioni della decisione costituiscono giusti motivi per disporsi la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello rispettivamente dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2019

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