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Diritto immobiliare Risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore

Risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore

Cassazione civile sez. III, 20/12/2019, n.34158

Fatto

RILEVATO che:

  1. Con sentenza del 7/4/2016 il Tribunale di Ivrea rigettò la domanda di risoluzione per morosità del contratto di locazione dell’alloggio in (OMISSIS), stipulato in data 22/4/2010 tra la Finanziaria Immobiliare Santa Rosa S.r.l., quale locatrice, e N.A. e Mo.Si., quali conduttori; accolse invece la domanda riconvenzionale di questi ultimi volta a ottenere la restituzione degli importi versati in eccedenza rispetto alla misura del canone stabilita dalle convenzioni edilizie comunali del 18/04/1984 e dell’8/7/2009, previa declaratoria di nullità in parte qua D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ex art. 18, comma 5, delle relative clausole contrattuali. Operata dunque la compensazione con l’importo di Euro 756,83 (dovuto dai conduttori a titolo di oneri accessori maturati nell’anno 2012/13 e non corrisposti), condannò detta società al rimborso in favore di questi ultimi della somma di Euro 4.112,66, oltre interessi e spese.
  2. In parziale accoglimento del gravame interposto dalla società e in conseguente riforma di tale decisione, la Corte d’appello di Torino ha dichiarato risolto il contratto di locazione per inadempimento dei conduttori e condannato gli stessi al pagamento della somma di Euro 2.198,18, oltre interessi di legge.

Ha infatti ritenuto che gli appellati non avessero provato la dedotta violazione da parte della società locatrice delle soprarichiamate convenzioni edilizie avendone omesso la produzione in giudizio.

Ha al riguardo in particolare osservato che:

  1. a) il fatto che la società locatrice fosse firmataria di tali convenzioni non la rende soggetto di “natura eminentemente a) pubblicistica” come affermato dal primo giudice e non la onera di speciali incombenti istruttori in deroga all’art. 2697 c.c., comma 2;
  2. b) le note dirigenziali richiamate dai resistenti “non sono dotate di fede privilegiata ex art. 2700 c.c., non tengono conto di eventuali spese maggiorative del canone e, soprattutto, riportano esplicitamente l’esito di “calcoli effettuati dall’ufficio”, che, a fronte delle contestazioni di parte locatrice, avrebbero dovuto essere verificate mediante il testo delle convenzioni edilizie applicate ed essere (tutt’al più) confermate in giudizio dal dirigente firmatario, di cui, però, non era stata chiesta l’escussione”;
  3. c) non può essere invocata l’applicazione dell’art. 213 c.p.c., in quanto le parti appellate non hanno allegato l’eventuale impossibilità di produrle in giudizio.
  4. Avverso tale sentenza N.A. e M.S. propongono ricorso per cassazione con unico mezzo, cui resiste la società intimata depositando controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO che:

  1. Va anzitutto disattesa l’eccezione, opposta dalla controricorrente e dalla stessa reiterata nella memoria, di sopravenuta carenza di interesse al ricorso, per essere nel frattempo il contratto venuto a scadenza e conseguentemente anche rilasciato l’immobile.

Questa Corte ha invero già chiarito, con indirizzo cui si intende qui dare continuità, che nell’ipotesi in cui, nel corso del procedimento instaurato dal locatore per ottenere la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, intervenga la restituzione dell’immobile per finita locazione, non viene meno l’interesse (e il diritto) del locatore ad ottenere l’accertamento dell’operatività di una pregressa causa di risoluzione del contratto per grave inadempimento del conduttore, potendo da tale accertamento derivare effetti a lui favorevoli.

Peraltro, il giudicato formatosi sulla cessazione, per intervenuta scadenza, della locazione non preclude alla parte che ne ha interesse attuale l’esame della domanda di accertamento, con valore di giudicato, dell’operatività di una pregressa causa di risoluzione del contratto per inadempimento grave del conduttore, atteso che2 qualora più fatti diano diritto, ciascuno come causa autonoma, alla cessazione di un contratto, sussistono altrettante causae petendi e, quindi, azioni, sicchè la pronuncia sull’una, passata in cosa giudicata, non preclude l’esame delle altre (v. Cass. 28/11/2008, n. 28416, che ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva dichiarato cessata la materia del contendere sulla domanda di risoluzione di un contratto di locazione per uso non abitativo a seguito dell’intervenuta convalida della licenza per finita locazione).

Va peraltro rilevata l’inammissibilità dei documenti che, a sostegno di tale eccezione, la resistente ha prodotto in questa sede in allegato alla memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., in quanto non notificati alla controparte.

  1. Con l’unico complesso motivo i ricorrenti deducono plurime violazioni di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

2.1. Con una prima censura denunciano la violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte d’appello – secondo una ricostruzione del quadro normativo opposta a quella illustrata dal primo giudice sulla base anche di pertinenti richiami alla giurisprudenza di legittimità – invertito l’onere della prova quanto al rispetto dei vincoli relativi alla determinazione del canone di locazione contenuti nelle convenzioni di edilizia economica e popolare.

Deducono altresì inosservanza degli artt. 115 e 116 c.p.c.: del primo per avere omesso, la Corte territoriale di considerare la mancanza di specifiche contestazioni sul punto da parte della locatrice; del secondo per avere erroneamente esercitato il potere discrezionale di valutazione delle prove e per avere omesso di considerare la possibilità di acquisire le indicazioni contenute nelle menzionate convenzioni anche attraverso consulenza tecnica d’ufficio.

2.2. Con una seconda censura deducono violazione dell’art. 2700 c.c., per avere negato alle citate lettere dirigenziali fede privilegiata e per avere ritenuto fosse necessaria la loro conferma in giudizio a mezzo prova testimoniale, posto che il loro contenuto non era stato specificamente contestato dalla controparte se non per la mancata considerazione di interventi di manutenzione straordinaria successivi alla costruzione, che però era la locatrice stessa ad avere la possibilità e l’onere di precisare e documentare.

2.3. Con una terza censura deducono ancora la violazione dell’art. 213 c.c., per avere la Corte d’appello escluso la possibilità di acquisire detti documenti d’ufficio per accertare, nel dubbio, l’effettivo canone applicabile.

2.4. Con una quarta censura i ricorrenti infine lamentano la violazione dell’art. 1455 c.c., in relazione alla ritenuta sussistenza della morosità con riferimento alle somme dovute per oneri accessori per le stagioni 2013/2014 e 2014/2015.

Rilevano al riguardo che: a) diversamente da quanto ritenuto in sentenza, vi era stata esplicita contestazione del credito, anche con la menzione di giudicato esterno favorevole; b) erroneamente la Corte di merito ha ritenuto la relativa domanda ammissibile, nonostante non fosse stata proposta con la memoria integrativa ex art. 426 c.p.c., ma solo successivamente; c) non era ravvisabile grave inadempimento ex art. 1455 c.c..

  1. E’ infondata la prima censura.

Fatto costitutivo della domanda di restituzione di indebito, avente ad oggetto le somme corrisposte a titolo di canone, per le locazioni di immobili di edilizia abitativa convenzionata, in eccesso rispetto alla misura massima stabilita dalle convenzioni comunali, è l’avvenuta corresponsione di somme non dovute.

In base al generale criterio di riparto dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., spetta a colui che agisce per la ripetizione dell’indebito dimostrare il fatto costitutivo di tale pretesa e, quindi, non solo il versamento delle somme ma anche il loro carattere indebito.

Nel caso di specie, tale carattere in tanto può essere affermato in quanto si abbia contezza dei canoni di locazione determinati dalle convenzioni comunali.

L’allegazione e documentazione di queste ultime rientrano pertanto tra gli oneri processuali posti a carico di parte attrice, non potendosi condividere l’assunto, implicitamente postulato a fondamento della censura in esame, secondo cui tali convenzioni dovrebbero ritenersi note o comunque autonomamente acquisibili dal giudice.

3.1. Non è, al riguardo, certamente invocabile il principio iura novit curia.

Come questa Corte ha da tempo chiarito, infatti, tale principio, là dove eleva a dovere del giudice la ricerca del “diritto”, si riferisce alle vere e proprie fonti di diritto oggettivo, cioè a quei precetti contrassegnati dal duplice connotato della normatività e della giuridicità, dovendosi escludere dall’ambito della sua operatività sia i precetti aventi carattere normativo, ma non giuridico (come le regole della morale o del costume), sia quelli aventi carattere giuridico, ma non normativo (come gli atti di autonomia privata, o gli atti amministrativi), sia quelli aventi forza normativa puramente interna (come gli statuti degli enti e i regolamenti interni) (Cass. 17/05/1976 n. 1742; 05/07/1999, n. 6933).

A tale secondo ambito di fonti, sottratte all’operatività del detto principio, vanno certamente ricondotte le convenzioni in discorso.

  1. Non risolutivo è pertanto il richiamo (nella sentenza del Tribunale e, mercè la citazione della relativa motivazione, da parte degli odierni ricorrenti) al principio affermato, in motivazione, da Cass. Sez. U. 16/09/2015, n. 18135 (secondo cui “ai sensi della L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 35, che delega al Consiglio Comunale la fissazione dei criteri per la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi in materia di edilizia convenzionata, gli atti amministrativi relativi, così come le convenzioni, in quanto promananti in forza della predetta delega legislativa, traggono da quest’ultima, direttamente, il carattere di imperatività e pertanto debbono ritenersi compresi nella previsione dell’art. 1339 c.c.; cui si ricollega quella dell’art. 1419 c.c., comma 2, posto che la conseguenza tipica della difformità di una clausola negoziale da una norma imperativa è la sanzione della nullità della clausola stessa: senza riflessi invalidanti, peraltro, sull’intero contratto in ipotesi di sostituzione di diritto”).

Non è in discussione infatti che, se vi è stato superamento del limite fissato da dette convenzioni, la clausola contrattuale sarebbe nulla e sostituita di diritto, ma si tratta per l’appunto di verificare se detto limite sia stato oppure no superato e questo lo si può stabilire solo conoscendo il contenuto delle convenzioni comunali.

3.3. Nemmeno è pertinente il richiamo a Cass. 16/10/2016, n. 27022.

Nel caso esaminato da quel precedente, infatti, i conduttori, agendo in giudizio per la restituzione di canoni corrisposti in eccesso in forza di pattuizione nulla ai sensi della L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 4, primo inciso, avevano allegato che era stato contrattualmente attribuito al locatore un canone superiore a quello massimo definito con applicazione dei criteri indicati dagli accordi in sede locale, per immobili aventi le medesime caratteristiche e appartenenti alla medesima tipologia, e avevano genericamente rinviato alle caratteristiche ed alla tipologia dell’unità abitativa oggetto del contratto.

Essendo stata tale domanda accolta, con decisione confermata in appello, la locatrice, denunciando con il ricorso per cassazione violazione dell’art. 2697 c.c., aveva rilevato che i conduttori non avevano allegato i fatti costitutivi della loro domanda, cioè gli elementi caratterizzanti l’immobile (superficie, piano, caratteristiche del condominio) dai quali si sarebbe dovuto desumere l’eccesso del canone pattuito rispetto a quello legale stabilito in sede di accordi territoriali per i contratti concordati, ed aveva quindi dedotto che a questa carenza di allegazione non si sarebbe potuto sopperire mediante il ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio, come invece avevano fatto i giudici di merito.

La Suprema Corte ha respinto tale doglianza rilevando che (v. sentenza cit., in motivazione, p. 4.1), “poichè gli elementi da prendere in considerazione per la definizione del canone effettivo, collocato tra il valore minimo ed il valore massimo delle fasce di oscillazione per ogni area ed eventuale zona del territorio comunale, sono individuati sia dalla convenzione nazionale che dagli accordi definiti in sede locale (così come nella vigenza della L. n. 392 del 1978, gli elementi che concorrevano alla determinazione dell’equo canone erano predeterminati dal legislatore, tanto che all’accertamento fatto dalle parti, a norma dell’art. 12 di quella legge, si riconosceva valore di atto ricognitivo e non negoziale: cfr. Cass. n. 7/1998 e n. 9489/07), la loro acquisizione in concreto è possibile in corso di causa, mediante ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio c.d. percipiente, senza che risulti alcuna violazione del contraddittorio e del diritto di difesa, essendo l’immobile di riferimento noto ad entrambe le parti”.

A differenza dunque di quello in esame, si trattava in quel caso solo di acquisire elementi oggettivi, relativi alle caratteristiche dell’immobile (superficie, piano, caratteristiche del condominio), rilevanti ai fini del calcolo del canone secondo i criteri predeterminati dal legislatore, risultando noti invece i dati normativi che definivano valori e criteri di calcolo.

3.4. La violazione dell’art. 115 c.p.c., cioè del principio di non contestazione, è poi sul punto dedotta genericamente e comunque non nei termini che sono a tal fine da ritenere necessari secondo costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, attraverso cioè la specifica indicazione del contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori atti difensivi e la puntuale segnalazione della genericità o dell’eventuale totale assenza di contestazioni sul punto (v. ex multis Cass. 22/05/2017, n. 12840).

Onere che tanto più nella specie avrebbe dovuto essere osservato avuto riguardo allo specifico rilievo contenuto in sentenza secondo cui la carenza probatoria (derivante dalla mancata produzione delle citate convenzioni) viene in rilievo proprio “a fronte delle contestazioni della parte locatrice”.

3.5. Sotto il profilo della pure dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., è poi appena il caso di rammentare come, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di detta norma processuale (la quale sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4″ solo nell’ipotesi – certamente non ravvisabile nella specie – in cui il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).

Orbene, non è certamente riconducibile a tale paradigma censorio la mancata ammissione di consulenza tecnica d’ufficio. Come già chiarito da questa Corte, questa infatti, può costituire semmai, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso, una grave carenza nell’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza, denunciabile, nel vigore del nuovo testo dell’art. 360, comma 1, num. 5, c.p.c., nei limiti in cui esso determini omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ed abbia carattere decisivo (Cass. 23/03/2017, n. 7472; 22/06/2016, n. 12884). Ciò però solo nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedano si proceda ad un accertamento tecnico (Cass. 01/09/2015 n. 17399). Presupposto certamente non ravvisabile nella specie.

  1. La seconda censura si appalesa inammissibile.

Anzitutto per l’omessa specifica indicazione dei documenti cui essa fa riferimento (note dirigenziali), in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, non essendone indicato il contenuto, nè tanto meno la sua localizzazione nel fascicolo processuale.

L’inammissibilità della censura può comunque predicarsi anche ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, avendo la Corte sul punto deciso in conformità a principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte.

Costituisce invero jus receptum l’affermazione secondo cui l’efficacia probatoria dell’atto pubblico, nella parte in cui fa fede fino a querela di falso, è limitata agli elementi estrinseci dell’atto, indicati all’art. 2700 c.c. e non si estende al contenuto intrinseco del medesimo; essa più precisamente riguarda i fatti attestati dal pubblico ufficiale come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti o conosciuti senza alcun margine di apprezzamento, nonchè con riguardo alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti; la fede privilegiata non è, per converso, estesa agli apprezzamenti in esso contenuti, nè ai fatti di cui il pubblico ufficiale ha notizia da altre persone o a quelli che si assumono veri in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche. Ne consegue che le valutazioni eventualmente espresse costituiscono elementi di convincimento con i quali il giudice deve criticamente confrontarsi, non potendoli recepire aprioristicamente (v. ex multis Cass. 25/07/2019, n. 20214; 30/05/2018, n. 13679).

I ricorrenti, per vero, lungi dal proporre argomenti che possano indurre a modificare tale pacifica interpretazione della norma, la richiamano a fondamento della propria tesi censoria, il cui contenuto però è sviluppato in termini che apertamente la contraddicono, dal momento che quel che si sostiene è che, nella specie, dovrebbe attribuirsi fede privilegiata proprio al contenuto valutativo di detti atti.

  1. E’ anche inammissibile la terza censura.

Anche sul punto la Corte d’appello ha deciso conformemente a principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale l’esercizio del potere, di cui all’art. 213 c.p.c., di richiedere d’ufficio alla P.A. le informazioni relative ad atti e documenti della stessa che sia necessario acquisire al processo, costituisce una facoltà rimessa alla discrezionalità del giudice, il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità (Cass. 15/02/2011, n. 3720; 02/09/2003, n. 12789); potere discrezionale del tutto legittimamente motivato anche con riferimento al rilievo che non si tratti di documenti dei quali la parte abbia dedotto di non poterli altrimenti acquisire (v. ex multis Cass. 13/03/2009, n. 6218; 07/11/2003, n. 16713; 10/01/2005, n. 287).

  1. E’ infine inammissibile anche la quarta censura.

Come fondatamente dedotto dalla controricorrente, sull’accertamento della sussistenza dell’ulteriore credito, in capo alla locatrice, per l’importo di Euro 756,83 (dovuto dai conduttori a titolo di oneri accessori maturati nell’anno 2012/13 e non corrisposti) – accertamento contenuto nella sentenza di primo grado – deve ritenersi formato il giudicato interno, non essendo stato sul punto proposto appello incidentale da parte degli odierni ricorrenti.

  1. Per le considerazioni che precedono deve in definitiva pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2019

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